«Come si può vivere a New York quando ci sono Venezia e Parigi?» si domandava Ernest Hemingway.
Era giunto a Venezia, per la prima volta, nel 1948 e da ci tornava regolarmente. Aveva trascorso un mese in un raffinato hotel, il Gritti Palace, a suo dire «il miglior albergo della città in una città di grandi alberghi».
Poi aveva traslocato nella Locanda Cipriani di Torcello, per lavorare senza distrazioni al suo nuovo libro. «Alle dieci – ricorda Cipriani – si ritirava nel suo appartamento a scrivere, voleva in camera sei bottiglie di amarone. Gli duravano tutta la notte; la mattina le trovavamo vuote».
E spesso in camera non c’era neanche Hemingway che era andato a caccia di anatre nei canneti della laguna. A Venezia Ernest viveva tra il Gritti Palace e l’Harry’s Bar di Cipriani. All’Harry’s iniziava con un bloodymary, poi passava al caviale, che arrivava in una grossa scatola. Aveva lanciato lui stesso un nuovo cocktail, il Montgomery. Lo aveva chiamato così perché a quel generale inglese, che non stimava, «piaceva combattere in cinquanta contro uno».E la ricetta prevedeva una parte di Martini e cinquanta di gin.
«C’erano ore, da Harry’s, in cui il locale si riempiva di gente conosciuta, con la stessa regolarità incalzante della marea quando arriva a Mont Saint-Michel».
In alternativa andava al Ciro’s Bar (oggi La Caravella), per sorseggiare champagne con una sua ammiratrice, la principessa Aspasia di Grecia. Hemingway beveva molto e per colazione si faceva mandare in camera dal Bar Longhi del Gritti Palace due bottiglie di un vinoche che aveva scoperto di recente, il Valpolicella.
Percorreva lentamente Piazza S. Marco, carezzando i piccioni che gli salivano su una spalla, e gli sembrava che la cattedrale, «più bella di una bolla di sapone», avesse l’aria di un cinematografo….